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Dal tecnigrafo alla firma digitale: la mia prima DIA nel 2010

  • Immagine del redattore: GIUSEPPE MARSEGLIA
    GIUSEPPE MARSEGLIA
  • 19 mag
  • Tempo di lettura: 3 min

Qualche giorno fa, durante una pausa caffè a un corso di formazione, chiacchierando con alcuni colleghi – molti dei quali sono stati miei compagni di scuola alle superiori – è uscita una domanda semplice, ma potentissima: “Vi ricordate la vostra prima pratica?”

Ognuno ha condiviso il proprio ricordo, e quando è arrivato il mio turno, ho sentito qualcosa dentro muoversi. Perché quella prima pratica, nel 2010, è stata molto più di un lavoro: è stata la scintilla. E oggi voglio raccontarvela, così com’è andata.


L’inizio


Era il 2010, mi ero appena abilitato e da pochissimi giorni mi ero iscritto ufficialmente al Collegio dei Geometri. In quel periodo lavoravo ancora nell’impresa di famiglia, un’attività di ristrutturazione dove seguivo i clienti nella progettazione dei bagni e nella scelta dei materiali. Preparavo gli schemi di posa per i posatori e curavo i dettagli con grande attenzione.

Avevo sempre avuto una buona empatia con i clienti, e proprio parlando con loro, con entusiasmo, condivido il mio recente traguardo dell’abilitazione. È lì che mi raccontano un problema con il geometra che avrebbe dovuto seguirli: troppo impegnato, poco presente, e intanto i lavori non potevano iniziare perché mancavano i permessi.

Mi si accende una lampadina.


Il mio primo incarico


A quel punto ho colto l’occasione: ho raccontato loro che, nello studio precedente, mi ero specializzato proprio in quel tipo di pratiche (anche se, in realtà, con Roberto – il geometra che mi aveva formato – facevamo principalmente pratiche catastali).Ma la DIA, quella pratica in particolare, l’avevo preparata benissimo per l’esame di abilitazione.

Gli ho fatto un preventivo, spiegato tutti i passaggi, ho tirato fuori la mia lettera d’incarico e... loro hanno accettato. Il mio primo vero incarico da geometra.

Quella notte non ho dormito dall’emozione. Avevo ricevuto le chiavi della casa e il giorno dopo avrei fatto il mio primo rilievo da solo.


Senza studio, senza strumenti... ma con tanta voglia


Il giorno dopo vado subito a farmi fare il timbro provvisorio in attesa di quello ufficiale: avevo disegnato a mano il bozzetto con i miei dati e come sede avevo indicato l’indirizzo dell’impresa di famiglia, perché ancora non avevo nemmeno uno studio.

Entro nell’appartamento: un quattro locali anni ’50, in un comprensorio con scala centrale. Non c’era corrente. Non avevo laser, né blocco rilievo, né nulla di “moderno”. Solo il mio metro a nastro, il metro di legno e una voglia matta di iniziare.

Mi ricordo ancora le difficoltà con i dettagli: come rappresentare gli stipiti delle porte, come prendere le diagonali a mano, come gestire le cabine armadio. Ci ho messo ore, ma è stato uno dei pomeriggi più intensi e formativi della mia vita. Quando ho iniziato a disegnare il progetto, mi sono accorto di non aver preso le altezze delle finestre: sono tornato a fare un secondo sopralluogo. Tutto pur di fare un lavoro preciso.


Il progetto sul tecnigrafo


Nel 2010 disegnavo ancora sul tecnigrafo. Niente CAD.Foglio lucido, matita 3H, nastro carta, squadre. Linee leggere, poi la china. Se sbagliavi, si grattava con la lama della Wilkinson.

Quando ho completato il disegno, sono andato a stamparlo in eliocopia: fogli che puzzavano di ammoniaca, attese infinite, stampanti grandi come stanze. Un’esperienza che oggi sembra preistoria, ma che aveva un sapore speciale.


La presentazione in Comune


Per presentare la pratica, non c’erano invii digitali o firme elettroniche. Si andava fisicamente in Comune. Numeratore, coda, verifica documenti. Fortunatamente, la casa era conforme e la pratica è stata accettata senza problemi.

Quando sono uscito da lì, con la mia prima DIA ufficialmente protocollata, avevo un senso di soddisfazione enorme. Non solo per il risultato, ma per tutto il percorso che avevo fatto fino a quel momento, da solo, passo dopo passo.


Oggi


Oggi, a distanza di 15 anni, lo studio è cresciuto: abbiamo due geometri assunti, una coordinatrice di studio, e seguiamo decine di agenzie immobiliari come consulenti tecnici di riferimento.

Sono cambiate tante cose, è cambiato il modo di lavorare, sono cambiate le procedure, i software, i clienti. Ma una cosa non è cambiata: la fame. La stessa voglia di fare bene, di crescere, di costruire qualcosa di mio che avevo quel giorno del 2010.

Ed è per questo che non bisogna mai dimenticare da dove si è partiti, dove si è arrivati e, soprattutto, dove si vuole andare.


Giuseppe Marseglia



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